Narrato
-Parlato-
"Pensato"
-Parlato altri personaggi di sfondo-
Quando Miriam arrivò a East City, diluviava violentemente.
La ragazza stringeva a sé il cappotto nero, con il cappuccio tirato su, sulla chioma lucente e dorata. Con entrambe le mani teneva due pesanti valige, ma per lei portarle non era un problema.
Sospirò nell'osservare il cielo grigio e così tetro.
La separazione da suo padre e dalla sua amata tata, Elizabetta, ormai sessant'enne, era stata davvero dura e le aveva lasciato una gran malinconia. La cara tata singhiozzava, commossa nel vedere la sua "pargola" prendere una decisione tanto responsabile e da adulta come quella di crearsi una vita fuori di casa, rincorrendo il proprio sogno. Sventolava un fazzoletto, con gli occhioni gonfi di lacrime, quando il treno preso da Miriam partì da Resembool.
Il padre la salutava con un debole sorriso, agitando la mano.
Nei giorni precedenti, le aveva procurato tutto il necessario per partire e aveva mandato al Brigadiere Generale Stevens una lettera di raccomandazione per la figlia, nonostante Miriam gli avesse chiesto di non farlo.
Lei non voleva avere nessun tipo di privilegio per il suo importante cognome o per il fatto che era la figlia del famosissimo Alchimista Intrecciavite, uno dei migliori scienziati al servizio dello Stato di Amestris. Voleva risultare una ragazza normale, con il segno di aiutare il suo Paese grazie all'Alchimia. Era il sogno suo e anche della sua defunta madre.
Ma prima di iniziare la sua nuova vita, Miriam aveva ancora dei conti in sospeso. Per questo si trovava a East City.
Si diresse sotto la pioggia verso il manicomio della città, un istituto psichiatrico per malati di mente ad altissima sicurezza, in cui erano rinchiusi criminali e individui tanto violenti e aggressivi da essere ritenuti pericolosi. Era lì che per colpa sua era finita la sua matrigna, Layla, madre di Mark, seconda moglie di suo padre...nonché la donna che le aveva fatto da madre. Dopo la morte di Mark, aveva iniziato a delirare e non ragionare più, regredire quasi ad uno stato infantile, fino a diventare violenta, specialmente in presenza di Miriam, colei che aveva ucciso il suo bambino. Ma Miriam non l'aveva fatto apposta, non sapeva nemmeno che la sua anima, la sua mente e il suo corpo erano stati fusi con quelli di un giaguaro selvaggio.
Layla aveva cercato più volte di ucciderla, dapprima semplicemente picchiandola. Miriam non aveva mai reagito, convinta che meritasse tutto quel dolore fisico e morale. Era sempre suo padre o Elizabetta a fermare Layla, dicendo a Miriam di scappare. Ma una sera, la povera donna tentò di pugnalare la figlioccia alla schiena. Fortunatamente Alexander intervenne subito e Miriam se la cavò con una cicatrice sulla schiena. A malincuore, l'uomo fece rinchiudere la moglie in quell'istituto, dopo aver speso un mucchio di soldi inutilmente per terapie intensive con psichiatri che venivano a curare Layla a casa.
Miriam varcò il cancello del lugubre ospedale, era davvero un edificio imponente, tutto grigio e con una forma ad U. Sicuramente era suddiviso in reparto maschile e reparto femminile.
Siccome aveva fatto richiesta una settimana prima, quando arrivò nell'ufficio informazioni venne subito raggiunta dall'infermiera che si occupava di Layla, una donna sui 45 anni, dai capelli ricci e rossicci, con un fisico ben piazzato e robusto.
Lei la condusse nella stanza delle visite, assicurandola che sarebbe rimasta nella camera con loro due per prevenire ogni incidente.
L'infermiera entrò per prima nel luogo d'incontro, parlando dolcemente con Layla, spiegandole:-
E' venuta a trovarti una cara persona, tesoro. Mi raccomandolo, accoglila con tutti gli onori, è venuta da lontano e con la pioggia solo per te! Entra, cara.All'invito dell'infermiera, Miriam avanzò lentamente, con un nodo in gola e gli occhi lucidi per l'emozione.
Le mancò il respiro nel vedere Layla dopo due anni, tanto magra da essere anoressica, ridotta ad uno scheletro, con i lunghi capelli castano chiari tagliati cortissimi e gli occhi spenti, cerchiati da profonde occhiaie.
-
L-Layla.- mormorò, con la voce rotta dal pianto, in un tono quasi sussurrato.
Nel vedere la ragazza, Layla cacciò un urlo così forte da far tappare alle due presenti le orecchie e si catapultò all'indietro, cadendo dalla sedia su cui era stata seduta.
Ranicchiandosi contro la parete, fissò con occhi sgranati e furiosi l'infermiera.
-
Mandala via! E' un mostro, un'assassina! E' lei la lurida tro*a da rinchiudere in questa merd* di posto, non io! E' lei! Lei! Ha ucciso il mio bambino! Infanticida!- urlò isterica, indicando Miriam con il dito ossuto, mentre lacrime amare rigavano le guance della sedicenne.
Tanto rapida da fare impressione, con quel corpo che pareve potersi spezzare da un momento all'altro, Layla si alzò e corse verso Miriam. La ragazza, come due anni prima, abbassò il capo pronta a subire la furia di quella donna disgraziata, ma l'infermiera urlando il nome della sua paziente la prese subito per le braccia tirandogliele indietro.
-
Belva, bestia, mostro infame! Sei un'assassina schifosa! Me l'hai ucciso! Il mio bellissimo bambino! Tu me l'hai ammazzato, te lo volevi mangiare! Stron*a! Pu**ana!- continuò ad urlarle addosso pesanti insulti, mentre Miriam, a capo chino, iniziava a singhiozzare in silenzio.
Ansimando, Layla tirò con forza verso la ragazzina, mentre l'infermiera cercava di trattenerla per le braccia da dietro, chiamando a gran voce la sicurezza.
La paziente riuscì ad arrivare con il viso accanto all'orecchio di Miriam e con na voce lugubre e sussurrata le disse:-
Sei solo una bestia. Porti solo disgrazie da quando sei nata. Tuo padre ti odia, me lo ha detto lui. Ti odia con tutto se stesso. Gli hai ucciso la moglie, il figlio e lo hai separato dalla donna che ama. Lui ti vuole morta, non vede l'ora che tu te ne vada via di casa. Nessuno ti vuole, tutto il villaggio ti detesta. Brucia all'inferno, sgualdrina.Detto questo le morse con violenza un'orecchio, fino a farla urlare e sanguinare. Proprio in quel momento giunsero due uomini spallati che portarono via Layla, che non smetteva di urlare insulti e dimenarsi, mentre l'altra infermiera soccorreva Miriam e la disinfettava, chiedendole perdono per l'accaduto.
Mentre le applicava la benda all'orecchio, la ragazza rimase a fissare il pavimento attraverso i lacrimoni, con sguardo perso, in silenzio.
Ventiquattr'ore dopo, sotto un tiepido sole invitante, Miriam suonò al cancello in ferro battuto dell'Accademia Militare di Nord City, con il suo lungo cappotto nero addosso e le valigie tra le mani, coperte da guanti di velluto bianco, regalo di Elizabetta.
Attese che qualcuno la ricevesse, respirando piano, nervosa per l'emozione ma allo stesso tempo felice di iniziare una nuova vita, dove nessuno più l'avrebbe considerata un mostro.