. A n k o k u |
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| Q uasi glieli strappò dalle dita, quei fogli di carta stampata, bianchi e neri e neri e bianchi e bianchi e neri. Quando vi fissò lo sguardo sopra, impiegò un lungo attimo a mettere a fuoco le altisonanti parole che vi erano scritte. L'abisso di quelle letterine che puzzavano di petrolio la inghiottì con la sua fatalità. Lesse ogni riga con la massima attenzione, devota come davanti ad una reliquia, e compilò i fogli meticolosamente, tracciando ogni parola con lentezza esasperante, quasi avesse paura del foglio e della stilografica con la quale stava tracciando i suoi dati, con la sua calligrafia sottile e arcuata di mancina. I capelli ricci e morbidi rotolavano giù dalle spalle, lunghissimi e serici, fino a coprirle la spalla sinistra e l'intero braccio sul quale calcava con il suo esile peso. Delle ciocche finirono sul foglio, ancor più nere dell'inchiostro e lucide come ali di corvo. Alzando gli occhi dorati, ebbe un moto di paura. Osservò attentamente la chiave dorata come se fosse un serpente pronto a scattare e morderla; infine la prese con due dita, rigirandosela tra le mani. Era fredda e liscia. Il portachiavi rotondo portava da una parte l'araldica dell'Esercito, dall'altra parte un numero in legno smaltato: 17. Un piccolo sorriso si affacciò alle sue labbra rosse, sarcastico. Salutò con educazione per poi uscire dalla porta lignea. Una volta fuori, perse l'espressione ferma sul suo volto per lasciare spazio ad una gioia incontenibile. Un ampio riso si scatenò dalla sua bocca di ginepro, silenzioso e gaio; l'allegria si sparse a ondate dentro e fuori il suo corpo, rischiarando la sua visione del mondo, come se tutto si fosse improvvisamente ricoperto d'oro. Era andata. Ce l'eveva fatta.
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